Nicola Zingaretti

Populismo e demagogia

Bisogna rendersi conto del fatto che il termine “populismo” è un’arma eccezionale regalata in mano ai demagoghi.

Questo termine, infatti, fa riferimento ad un particolare movimento russo, storicamente determinato, la cui legittima ambizione era quella di portare al governo le istanze delle classi più povere e popolari.

Un altro esempio perfetto di populismo, nella sua accezione corretta e storicamente determinato, è il più recente movimento Occupy Wall Street. Lo scopo delle proteste e delle manifestazioni di quel movimento era quello di denunciare la crescente disuguaglianza che negli ultimi 30 anni ha portato a concentrare enormi quantità di ricchezza nell’1% della popolazione.

Questo movimento, dal mio punto di vista, si può definire oltretutto di natura borghese; infatti è il ceto medio quello che si è ristretto, rendendo impraticabile la distanza tra lo status di proletario-povero e quello di persona capace di vivere nel benessere e di potersi permettere lo svolgimento di attività non necessariamente collegate alla sussistenza o all’alienazione.

Aggiungo che è proprio la presenza di un forte ceto medio a garantire quella vivacità culturale e politica (fatta di idee e di mezzi) che consente alle democrazie di vivere in salute.

Ora se questo è populismo, bisogna intendersi sul fatto che esso è perfettamente legittimo; del resto chi può onestamente pensare che chi vive nella povertà e senza prospettive non è legittimato a protestare e ad ambire ad un “cambio di guardia” nelle stanze del potere?

Il punto è che qui subentra quel paradosso dettato dalla necessità: se lo scontro voluto dal populismo è quello tra élite e popolo, due sono i possibili esiti, entrambi incompatibili con l’anti-elitarismo: o si sostituisce l’élite – passando ad esempio da quella nobiliare a quella burocratica come in Unione Sovietica – o l’élite già insediata scende a patti e si fa interprete con nuova consapevolezza delle esigenze di ampie fasce di popolazione (riformismo).

Infatti non esiste un governo senza élite, poiché la scelta di un gruppo di persone delegato al potere, per merito, rappresentanza o altre forme, diventa automaticamente una élite. Chiunque proponga il contrario, cioè gli anti-elitaristi, è un demagogo.

Qui entra in scena la demagogia, che dovrebbe essere il termine usato per contraddistinguere coloro i quali oggi vengono tacciati di populismo. Non a caso Salvini e altri hanno più volte rivendicato con fierezza e demagogia di essere populisti, da un lato sapendo perfettamente che questo termine è popolare, e dall’altro sterilizzando un’arma retorica dei loro oppositori.

La demagogia è quell’atteggiamento con cui un’entità politica cerca di catturare consenso proponendo leggi, riforme o slogan che accarezzano le rimostranze dei più, senza impegnarsi concretamente nella loro risoluzione.

Anche qui è possibile fare un esempio perfetto di demagogia: il recente referendum sul taglio dei parlamentari. La rimostranza diffusa nei confronti della nostra classe dirigente – anche parlamentare – è intercettata dai demagoghi come Di Maio e Zingaretti come opportunità per rilanciare la propria forza elettorale, usando come tramite una proposta che ovviamente non risolverà i problemi alla base di quella rimostranza, ma che ha funzionato come momento di “vendetta” in definitiva innocuo. Ora, la delusione degli italiani nei confronti della classe politica è perfettamente legittima, visto lo stato in cui versa il Paese e la sempre più diffusa disillusione; la demagogia, che è antipopolare, sta però nel prendere in giro queste persone accontentando i loro istinti più bassi senza toccare minimamente il problema vero, che è quello della classe dirigente di questo Paese.

Il populismo autentico è la ricerca di una dialettica che nasce dal basso e che è rivolta, a volte con forza distruttiva, nei confronti dell’élite. La demagogia funziona invece in senso opposto: proviene da una élite debole e alla disperata ricerca di consensi e si rivolge quindi dall’alto verso il basso.

Sempre a proposito dell’ultimo referendum, non a caso, si è votato “SI”, cioè un assenso ad una riforma già decisa in Parlamento, e quindi dall’attuale élite gialla-rossa-verde.