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Batterie al litio, come preservarle e quali implicazioni hanno

La società occidentale, e non solo, oggi è assolutamente dipendente dalle batterie al litio. A meno che non rinunciamo a cellulari, tablet, notebook, macchine fotografiche digitali, lettori musicali portatili e altro ancora, ogni giorno siamo alle prese con caricabatterie e indicatori di carica, e sappiamo bene come non calcolare attentamente “la carica residua”, possa impedirci poi di comunicare col mondo o di lavorare.

Le batterie agli ioni di litio sono, ad oggi, il meglio che c’è nell’ambito consumer, perché garantiscono una grande quantità di carica accumulata, bassi tempi di ricarica e soprattutto sono prive di “effetto memoria”.

Tale effetto è ben conosciuto da chi 20 anni fa usava le batterie al Nickel-Cadmio dei primi cellulari, che avevano la necessità di essere scaricate completamente prima di fare una nuova ricarica, pena l’invecchiamento precoce dalle batterie stesse (infatti i caricabatterie offrivano spesso anche la funzionalità di “scarica” batterie, per agevolare il processo). In realtà tale problema era visibile solo dopo centinaia di cicli di carica/scarica.

La grande flessibilità delle batterie al litio risolve il 90% dei problemi, però questo non significa che una serie di buone abitudini non possa migliorare le prestazioni della batteria, che tra l’altro nei dispositivi più moderni, non è di facile sostituzione.

Consigli sempre utili

  1. Disabilitare tutte le funzionalità del dispositivo che non usiamo (spesso il Bluetooth e alcune applicazioni in background) ci consente di risparmiare l’uso della batteria, e quindi possiamo usare il dispositivo più a lungo.
  2. Portarsi raramente ai limiti della batteria: l’ideale è non scendere sotto al 20% e non ricaricare oltre l’80%. In questo modo facciamo lavorare la batteria attorno al suo punto medio di carica, senza stressare i componenti chimici delle celle. In particolare è importante non scendere spesso sotto il 5-10% della carica, pena il danneggiamento delle celle.
  3. Tenere una carica > 20% è perfetto anche per quelle situazioni in cui il dispositivo rimane a lungo spento (es. se lasciamo il tablet a casa durante le vacanze). Con quella carica residua non ci saranno problemi, perché uno dei vantaggi delle batterie agli ioni di litio è di perdere molto lentamente la loro carica (5%-10% al mese circa, a seconda dell’efficienza del circuito di controllo).
  4. Paradossalmente, una volta al mese è consigliabile effettuare un ciclo di carica e scarica completo, cioè scaricare completamente la batteria, aspettare qualche ora e ricaricare fino al 100%. Questo è importante per tarare il circuito di controllo, che in questo modo capisce qual è davvero lo 0% e qual è il 100%. Se non si effettua mai un’operazione di questo tipo, il dispositivo si auto-spegne quando in realtà c’è ancora carica sufficiente. Infatti i dispositivi progettati per funzionare con le batterie al litio, si autospengono quando raggiungono il 2-3% di carica residua reale, per evitare il problema del punto 2.
  5. Mantenere la batteria a temperatura ambiente (attorno ai 25°C) per non rovinare i componenti chimici. Ad esempio è meglio non lasciarla in automobile al caldo, tanto meno al sole.
E tu? Hai altri consigli per prolungare la durata della batteria?

Consigli che spesso non condivido o potenzialmente dannosi

Molti consigliano di disabilitare i servizi di localizzazione, il traffico dati, le notifiche utili, insomma… i veri motivi per cui uno compra uno smartphone! Tali consigli li vedo utili più che altro quando si è a corto di energia e ci si vuole garantire la possibilità di effettuare una chiamata di emergenza.
Anche l’abbassare la luminosità dello schermo è una sciocchezza: ormai i dispositivi si autoregolano sulla base della luce ambientale, consentendo una lettura sempre ottimale che sforza di meno la vista e che ottimizza così il consumo di batteria. Che senso ha abbassare la luminosità se poi impieghiamo il doppio del tempo per leggere?
Una delle cose più sbagliate, secondo me, è lo staccare la batteria del portatile quando lo si usa attaccato alla corrente.

Innanzitutto da moltissimi anni tutti i caricabatterie sono dotati di un sistema di protezione che blocca il processo di carica quando la batteria raggiunge il 100%, quindi non è possibile danneggiare la batteria perché la lasciamo 2 giorni in carica. Il secondo errore di questa pratica è nel credere che così la batteria duri più a lungo: l’invecchiamento delle batterie al litio avviene innanzitutto col tempo, e non con l’utilizzo, e quindi non usare la batteria significa solo sprecarla. Si pensi che l’invecchiamento minimo è pari ad una perdita del 20% all’anno del pieno potenziale. Il terzo errore, forse il più importante, è che la batteria svolge un ruolo di tampone tra il sistema di alimentazione e il notebook: quante volte chi tiene scollegata la batteria ha subìto un distacco improvviso dell’alimentazione dovuto ad un blackout o ad uno scollegamento accidentale dell’alimentatore dalla rete elettrica? In questo modo si rischia solo di perdere i dati o addirittura di danneggiare il portatile.

Una tecnologia da sostituire?

I grandi vantaggi delle batterie al litio hanno consentito la comparsa di nuovi e utili dispositivi, ma come si suol dire “l’appetito vien mangiando” e sono nate nuove necessità. Oggigiorno i dispositivi mobili, a cominciare dagli smartphone, consumano molta energia e anche le prestazioni di questa tecnologia non riescono a garantire l’usabilità di certi dispositivi oltre le 24 ore. Da un lato le maggiori funzionalità verranno compensate con tecnologie meno esose di energia, ma dall’altro c’è un evidente vantaggio in una durata della batteria maggiore di almeno un ordine di grandezza. Se ci si pensa bene oggi alcune applicazioni sono inibite proprio dalla durata della batteria: mantenere attiva la rete dati e il GPS, oltre che il display, per usare lo smartphone come navigatore per qualche ora è quasi impossibile se non si ha a disposizione una fonte di alimentazione secondaria. Lo stesso dicasi per l’utilizzo del telefonino come hot spot wireless o come dispositivo per l’allenamento fisico (anche qui c’è spesso la necessità di combinare reti bluetooth, dati e GPS).
Una delle promesse in campo è l’utilizzo di supercondensatori al grafene, capaci non tanto di accumulare molta carica, quanto di farlo in fretta (ad esempio in meno di un minuto) rendendo quanto meno più agevole il processo di ricarica. A questo punto resta da chiedersi se la tecnologia al litio durerà, ma come vedremo tra poco, ci sono alcuni fattori che consentiranno al litio di avere ancora un futuro.

Una dipendenza in più da analizzare

Se vediamo il Litio come il petrolio, possiamo dire di esserci creati una ulteriore dipendenza energetica, ma per ora pare che le notizie siano buone.
Le maggiori riserve di Litio sono nelle Americhe (principalmente Cile, USA, Bolivia e Argentina) e a seguire Cina e Russia (Fonte: An Abundance of Litium, 2008). 
Lo sfruttamento attuale vede il Cile come assoluto protagonista, con 7400 tonnellate estratte all’anno, e a seguire Australia e Cina con 4400 e 2300 tonnellate (dati del 2009, fonte USGS).
L’aumento di domanda del litio è del 10% all’anno circa, e si prevede che il trend resisterà per più di 10 anni, e il motivo principale è il boom di mezzi di locomozione elettrici (bici e auto) che necessitano di batterie al litio per immagazzinare l’energia.
Le notizie buone sono le seguenti:
  1. il litio è in possesso di paesi con governi stabili
  2. il litio costa relativamente poco (3% del costo di una batteria)
  3. il litio si ricicla dalle batterie esauste
  4. il litio si produce usando energia verde
quindi pare che sia una dipendenza sopportabile e sostenibile!
(fonte: Lithium Industries: Outlook & perspectives).

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La freccia del tempo

Il tempo ha una direzione precisa oppure noi ne percepiamo una sola delle due? Oppure delle tante?

Una delle cose che mi affascina del tempo è che è una dimensione in cui il nostro movimento sembra fisso e costante, e appena si esce da questo limite si aprono tanti di quei paradossi che praticamente muori sempre.

Ad esempio pensiamo all’altezza, che è una delle tre dimensioni dello spazio: possiamo salire e scendere, cambiando il senso ogni volta che vogliamo, ma col tempo non è così. Non possiamo andare avanti e indietro (purtroppo), eppure è una delle quattro dimensioni dello spaziotempo, totalmente interlacciata con le altre tre, tanto che se stiamo fermi, viaggiamo nel tempo, come ci ricorda il nostro orologio, mentre se ci muoviamo nello spazio, andiamo un po’ più lenti nel tempo e un po’ più veloci nelle altre tre dimensioni dello spaziotempo.
Poi c’è la causalità, che anche se non scandisce il tempo come un’orologio, sembra fornirgli un senso: succede una cosa perché c’è una serie di concause, e così via fino al big bang. Tuttavia la causalità rischia di essere un’illusione, se si scende nell’infinitamente piccolo dove regna la fisica quantistica, con i suoi principi di indeterminatezza e altre stranezze, quindi è un terreno scivoloso.
Quello che i fisici vedono come fondamentale per dare un senso al tempo è l’entropia. Secondo i fisici l’entropia, così come è stata descritta nell’800 da Boltzmann, indica il numero di possibili stati in cui può essere un sistema. Il concetto di entropia è stato però esteso fino a diventare l’unico capace di definire un verso preciso del tempo, che, come noi sperimentiamo, va dal passato verso il futuro e non viceversa (creme di bellezza a parte).
Quello che noi sperimentiamo come tempo, infatti, altro non è che un continuo passare da uno stato di maggiore ordine ad uno di maggiore disordine, e questo ha a che fare esclusivamente con le probabilità. Ad esempio siamo capacissimi di notare che il filmato di un bicchiere che cade per terra e si spacca viene proiettato alla rovescia se osserviamo il bicchiere “ricomporsi” a partire dai suoi frammenti, ma quello che pochi sanno è che sebbene le probabilità siano assolutamente a sfavore di questo evento, secondo le leggi della fisica la cosa è perfettamente possibile, per quanto improbabile.
Al contrario, è molto probabile che un bel bicchiere cascando si spacchi in mille pezzi, cioè che passi ad uno stato di maggiore disordine. Se non fosse per il concetto di entropia, il tempo non avrebbe alcun verso, ed estendendo il ragionamento fino al big bang, si ha che all’inizio si era in una configurazione di estremo ordine, mentre il futuro sarà il regno del disordine (ottima argomentazione per giustificare il disordine in casa, non vi pare?).
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Steganografia e social network

Immagine originale
Piano di attacco (cambia il colore per via delle proprietà di compressione del JPEG)

Tantissimi anni fa ricordo di aver letto un interessante articolo sulla steganografia, cioè l’arte di nascondere l’informazione (si badi bene: non crittografie, ma nascondere) per comunicare con un interlocutore in modo riservato tramite un canale pubblico.

Forse per colpa del caldo mi è venuta alla mente una serie di pensieri, che riporto qua sul blog.

1) Ecco perché Facebook ricomprime le immagini

Ipotizziamo che io sia una cellula di Al-Qaeda e che sia iscritto ad una pagina Facebook jihadista che ogni tanto pubblica qualche foto. Supponiamo che io conosca uno schema che ad esempio prevede che ogni n byte dell’immagine ci sia una lettera di un messaggio codificato. Supponiamo poi che io abbia a disposizione un manuale di codici di guerra, che consentono di scrivere parole poco “rilevabili” con un dizionario.

Codici operativi:
0001 Attacco
0002 Rapimento

Target:
0001 Aeroporto tal dei tali

Come fare per comunicare a tutte le cellule come me questa cosa per organizzare ad esempio un attacco sincronizzato? Basterebbe mandare sulla pagina Facebook l’informazione, camuffata come foto! Immaginate una bella foto in formato JPEG, e supponete che io alteri il colore di un pixel (cioè di un punto dell’immagine) ogni 2000 punti… chi se ne accorgerebbe? L’importante è usare uno schema conosciuto: ad esempio un carattere ogni 2000 byte o cose del genere. Bene, Facebook ricomprime le immagini che inviate, e quindi non c’è nessuna probabilità che una cosa così semplice funzioni, a meno che non si inseriscano delle ridondanze che però rischierebbero di rovinare pesantemente l’immagine. La ricompressione, infatti, di fatto modifica di nuovo l’immagine, anche se ce ne rendiamo poco conto.
Ad ogni modo questa tecnologia è veramente alla portata di tutti… In 10 minuti si possono scrivere, anche se in forma “grezza”, sia il codificatore che il decodficatore, in un linguaggio come il C, che trovate in coda a questo post. Con un po’ di tempo si potrebbe costruire un sistema molto più raffinato e difficilmente individuabile.

2) Non ci resta che sperare nei servizi segreti
Ora se Facebook ricomprime, lo stesso non è detto per altri social network, e soprattutto non è così per i siti web. Questo è un esempio del perché Internet possa essere decisamente fuori controllo per i governi e i servizi di intelligence, cosa che sinceramente non mi fa moto piacere. Tuttavia sono sicuro che le normali investigazioni portino comunque ad individuare soggetti pericolosi, che pubblichino o meno le foto sul web.

3) Steganografia o crittografia?

Suona un po’ come “omeopatia o medicina ufficiale?” In realtà credo che questi due strumenti siano entrambi eccezionali per proteggere la riservatezza. La crittografia è sicuramente più comoda, perché ci sono strumenti che consentono di non rendersi nemmeno conto del fatto che si sta usando tale tecnologia; essa è tuttavia molto più appariscente della steganografia, perché quest’ultima nasconde anche l’intenzione di voler comunicare, e dato che non si può controllare tutto, vale il principio in base al quale il miglior modo di nascondere una cosa è metterla sotto agli occhi di tutti. Non dimentichiamoci comunque che è possibile nascondere un messaggio cifrato, cioè combinare le due modalità di comunicazione, per un mix decisamente impenetrabile.

Codificatore

Si noti: questo codificatore è decisamente elementare e non consente di passare del tutto inosservati, in quanto ad esempio il JPEG è un formato poco resistente alle modifiche (nell’esempio postato in alto cambia il colore di quasi tutta la foto).

#include <stdio.h>
#include <stdlib.h>
#include <string.h>

int main(int argc, char** argv)
{
const char* message =”0001 0001@22:00:UTC”;
if(argc != 2)
{
printf(“Errore, devi specificare un file jpegn”);
}
FILE *fp = fopen(argv[1],”rb”);
FILE *fp_o = fopen(“modificato.jpg”,”wb”);
int cntr = 0;
int len = strlen(message);
int done = 0;
char *buff;
buff=(char*)malloc(sizeof(char));
fseek(fp, 0L, SEEK_END);
int sz = ftell(fp);
fseek(fp, 0L, SEEK_SET);
for(int i=0;i<sz;i++)
{
fseek(fp, i,SEEK_SET);
fread(buff,1,sizeof(char),fp);
                //Salto i primi 16K per evitare problemi con 
                //i programmi che visualizzano immagini
if(i>16384 && i % 2000 == 0 && done < len)
{
*buff = message[done];
done++;
}
fwrite(buff,1,1,fp_o);
}
free(buff);
fclose(fp_o);
fclose(fp);
}

Decodificatore


#include <stdio.h>
#include <stdlib.h>
#include <string.h>

int main(int argc, char** argv)
{
if(argc != 2)
{
printf(“Errore, devi specificare un file jpegn”);
}
FILE *fp = fopen(argv[1],”rb”);
int len = 128; //Limito la ricezione massima
int done = 0;
char *buff;
buff=(char*)malloc(sizeof(char));
fseek(fp, 0L, SEEK_END);
int sz = ftell(fp);
fseek(fp, 0L, SEEK_SET);
for(int i=0;i<sz;i++)
{
fseek(fp, i,SEEK_SET);
fread(buff,1,sizeof(char),fp);
if(i>16384 && i % 2000 == 0 && done < len)
{
printf(“%c”, *buff);
done++;
}
}
free(buff);
fclose(fp);
}

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Vie di uscita dalla crisi / Una generazione di confine

Noi nati all’inizio degli anni ’80 siamo cresciuti cogliendo gli ultimi guizzi dell’Italia spendacciona e ricca che da lì a poco sarebbe tramontata assieme alla Prima Repubblica. A noi era stato insegnato che esisteva il mondo ricco e il mondo povero, con l’eccezione di qualche paese che veniva definito “in via di sviluppo”. Mai avremmo immaginato che in realtà la nostra sarebbe stata una generazione di confine,  quella che ha davvero visto scivolare via gli ultimi granelli di ottimismo e di progressi fatti nel grande boom degli anni 60. Nei decenni successivi abbiamo visto erodersi un vantaggio che sembrava interminabile, e che invece è stato colmato anche dalla crescita che il capitalismo è stato capace di portare quasi ovunque.

La più grande vittoria della nostra generazione, se ci sarà, potrà essere quella dell’enorme cambiamento verso una imprenditoria più sana, più dinamica (cioè capace di rispondere rapidamente ai cambiamenti, cogliendo uno dei pochi vantaggi della piccola dimensione aziendale) e basata sulla ri-scoperta del valore. Soprattutto noi, figli della grande pubblicità degli anni ’80, abbiamo il dovere di imparare a vendere le migliaia di belle cose, in campo artistico, culinario e artigianale, che l’Italia ha messo nelle nostre mani.
Soprattutto dobbiamo imparare a venderci bene, cosa in cui siamo assolutamente scarsi, come mi sono sentito dire più volte quando ho parlato con persone di altri paesi (soprattutto inglesi e francesi). Dobbiamo smettere di sciupare le nostre cose e piantare le trivelle nel petrolio che la storia ha messo non sotto, ma sopra la nostra terra, valorizzando il bello, il lussuoso, il funzionale, il buono, il capace. Non credo che basti, perché sono anche convinto che ci voglia tanta industria avanzata per poter vivere bene nel club dei paesi ricchi, ma è altrettanto vero che dal saper valorizzare possono nascere ricchezze enormi per il nostro Paese.
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Robocop 1987, Robocop 2014

Attenzione, nel post sono presenti riferimenti a scene del film!

Il vecchio e il nuovo Robocop, immagine © Totallylookslike.com


Robocop è stato uno dei miei film preferiti di sempre, cosa che chiunque mi conosce sa.
Che cosa mi è piaciuto di quel film? Il senso di invulnerabilità? La violenza inaudita? Lo humor degli spot televisivi e del telegiornale? A 8-9 anni può darsi, ma oggi direi qualche cosa di più: la perfetta sintesi che lo sceneggiatore ha fatto degli anni ’80: il ruolo delle grandi “corporation” nella società americana, le esagerazioni televisive, le privatizzazioni (vedi Reagan), la centralità dell’automobile e la grande speranza nell’intelligenza artificiale.

Gli effetti speciali? Erano necessari, ma non hanno mai preso il posto degli attori, pur trattandosi di un film di fantascienza; quanti film di Hollywood oggi sono capaci ti tenere a bada gli FX? Pochi, pochissimi, e i rifacimenti che stanno facendo dei film di allora sono un vero e proprio disastro, proprio perché forse qualcuno ha pensato che il limite di quei film fossero appunto gli effetti speciali, allora non ancora computerizzati.

Qui arriviamo al reboot di Robocop, firmato da Josè Padilha, e uscito nei cinema pochi mesi fa. Un disastro, con pochissimi spunti notevoli. L’attore protagonista non ha alcuna personalità, né da vivo né da “morto”, e tutto il film sembra scivolare via senza lasciare nulla. Un film piatto, incolore e insapore, che a parte qualche lacrimuccia del poliziotto che si vede ridotto a pochi brandelli di carne (l’unica scena davvero forte del film), non comunica il dramma dell’uomo morto e riattivato che progressivamente recupera i suoi ricordi. Del resto a parte un paio di battute, “l’uomo” nel film è durato molto poco e non ha certo dimostrato una personalità affascinante e complessa, quindi averlo trasformato in macchina non è stato un gran dramma.

Per carità, un tentativo di mantenere un ancoraggio con la realtà attuale c’è: l’idea è che questi robot vengono usati negli scenari di guerra classici (Afghanistan, Iraq) per ridurre a zero le morti di soldati umani. Questo in realtà ha senso perché è risaputo che una delle principali asimmetrie in questi conflitti è la (in)capacità dei paesi occidentali di “sopportare” l’aumento progressivo di vittime rispetto ai paesi non democratici. Il tentativo comunque è debole, ma sarebbe stato certamente peggio riproporre uno scenario anni ’80 nel 2014.

A parte questo, si salvano solo le seguenti cose:

  • La performance di Gary Oldman, che però si può permettere di scegliere film migliori
  • La performance di Keaton, che svolge perfettamente il ruolo della persona di potere che fa scelte irresponsabili con leggerezza e che adora manipolare il prossimo
  • La scena di Murphy disassemblato con i polmoni in bella vista
  • Il telegiornale (tipo TG4) di Samuel Lee Jackson, soprattutto quando toglie la parola al senatore Dreyfus; questa cosa però va vista con molta ironia
Inutile dire che la SUX-6000 (pronuncia SUCKS 6000) è stata rimpiazzata da una moto anonima, e che gli ED-209 non ruggiscono più come i puma.
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Il social network delle meraviglie

È difficile dare la definizione di migliore quando si ha a che fare con parametri estremamente soggettivi, quindi forse dovrei dire “Uno dei più interessanti”.

È Pinterest, che ho riscoperto proprio in queste settimane. Perfetto per chi è interessato a stile, design, moda, cibo e in generale tutto quello che può essere espresso con una foto.

Non serve per farsi i fatti degli altri, quindi forse non è così “social” (traduzione in inglese di “pettegul”) ma assicuro che aprire il wall di Pinterest può essere un momento di grande godimento se si scelgono i canali più interessanti.

Ci si iscrive, anche usando Facebook o Google+, si seguono altre persone e si possono “ripinnare” (condividere) le immagini, eventualmente catalogandole in opportune board (ecco quella in cui catalogo foto di astronomia o eventi naturali). Essendo meno popolato di Facebook ha anche il pregio di avere un pubblico più selezionato, se non altro per interesse.
E non ci sono i giochini idioti.

Seguitemi se vi va!

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Il Pi Greco, l’olografia e i buchi neri

Una delle mie caratteristiche è il farmi affascinare come un bambino di fronte alle scoperte scientifiche che riguardano l’universo e tutto ciò che è in noi e attorno a noi.

L’altro giorno ho visto in TV una puntata di una serie che non conoscevo, in cui si parlava del Pi Greco, o π, che tutti conosciamo come quel numero pari circa a 3.14.
Quello che giustamente diceva il personaggio della serie è che questo numero rappresenta il rapporto tra la lunghezza di qualsiasi circonferenza e il suo diametro. Fin qui niente di straordinario, se non ad esempio che una entità geometrica così comune in natura dipenda da quello che in fondo è un numero irrazionale, cioè non ottenibile con nessuna frazione di numeri interi, composto da infinite cifre decimali che non si ripetono mai. Qui però inizia il primo fatto affascinante: i matematici suppongono che la sequenza infinita di cifre decimali sia equivalente ad una generazione casuale di numeri, infinita appunto, che in quanto tale conterrebbe tutta l’informazione possibile. Questo è tanto più incredibile se si pensa che il numero nasce da un rapporto tra due entità geometriche semplicissime.
Facciamo un esempio: se ipotizzassimo di tradurre una tesi di laurea di 100 pagine in numeri (ad esempio usando la rappresentazione ASCII di tutte le lettere che la compongono) si potrebbe avere un inizio del genere:
Università degli Studi di Ferrara, Tesi sui sistemi operativi per computer.
Si avrebbe una conversione di questo tipo:
U=85
n=110
i=105
v=118
e=101

e così via (provate a fare la conversione in ASCII di un testo su questo sito). Quindi avremmo che l’inizio di questa tesi potrebbe essere trasformata in questa sequenza numerica:
85110105118101…

Ora il bello è che in qualche punto del π, si potrebbe trovare quella sequenza, seguita dal resto della tesi di 100 pagine. Non solo, ma da qualche altra parte, magari dopo 10^1000 cifre decimali (1 seguito da 1000 zeri) si troverà anche la traduzione in tedesco.

È facile trovare su Internet parecchi sviluppi del π, ma su questo sito trovate addirittura in che punto si trova una sequenza (non troppo lunga, però!).
Pensate però non solo ad una tesi di laurea, ma anche al DNA di ciascuno di noi o ai pixel che formano una foto che amiamo, o all’informazione di tutti gli stati quantici delle particelle che formano il Colosseo. Non basta? Allora pensate a tutti i libri che non verranno mai scritti, così come alla musica e alla filosofia. Tutto potrebbe essere nelle pieghe di quel numero.
Andiamo però oltre a quello che si lasciava intendere nella serie TV e spingiamoci oltre: parlando di informazione sparsa lungo le cifre decimali di un numero, mi è venuta in mente l’olografia, cioè la possibilità di proiettare una realtà tridimensionale a partire da due dimensioni. Tutti abbiamo avuto una dimostrazione pratica di un ologramma, stringendo tra le mani una carta di credito, e in futuro non si esclude un’evoluzione tecnologica capace di estendere gli ologrammi ad altre applicazioni quotidiane.
A questo punto è lecito chiedersi se tutta la realtà altro non è che un ologramma presente nel π, capace di comprimere in una sola dimensione (l’estensione delle cifre decimali) tutti gli universi possibili, incluso il nostro.
Tra l’altro, il fatto che la realtà tridimensionale sia un ologramma, è una delle tesi attualmente più accreditate dalla fisica in seguito ad alcuni problemi nati con lo studio dei buchi neri. Il fisico Leonard Susskind ha avuto infatti la meglio sullo stesso Hawking (con cui ha “lottato” per anni, finché Hawking ha dato ragione a Susskind) per aver ipotizzato che i buchi neri abbiano proiettato sul loro esterno l’intero insieme dell’informazione di ciò che è cascato dentro….
Mi viene da dire che se il buco nero è di forma sferica (e quindi tonda) il π allora potrebbe dare un interessante contributo a questa proprietà olografica!